Testo di Luca Barbieri, servizio fotografico di Silvia Fabbi
Immergersi nella natura, come immergersi nella vita, è sempre fonte di grande ispirazione in tutti i campi del fare impresa. È questo che stavo pensando domenica. E allora perché non provare a estrarre qualche pillola dalle esperienze personali?
Visto dal Gamslahnernock, la Cima dei Camosci, sulle Alpi Taure a cavallo tra la Valle Aurina e la val di Fundres, la salita al Grosser Möseler, il Mesule, sulla cresta di confine – da un lato Italia, dall’altro Austria – appare inaffrontabile: un ghiaione verticale, peraltro appoggiato sul ghiaccio, come si verificherà in seguito, e poi una ripida cresta per arrivare ai 3478 metri della vetta. Dalle relazioni recuperate online è segnalata come una salita senza troppe complicazioni per escursionisti esperti. Ma vederlo da lì, per le nostre capacità, non c’è chance. Eppure, partendo dal rifugio Porro (in tedesco Chemnitzhutte, dalla nome post-riunificazione di Karl-Marx-Stadt, uno dei luoghi produttivi della Trabant) un adesivo del Cai di Cavriago ci spinge a provare.
Noi proviamo sempre. Ci diciamo di no all’inizio (ma sei matto/a!?) ma sappiamo già che ci proveremo. Quando parlo di noi dico io e Silvia, mia compagna di cordata, in diverse dimensioni e autrice di queste foto.
Per sentirsi liberi di provare però, è una cosa che si impara, bisogna sentirsi liberi di abbandonare. È un lusso che si guadagna col tempo. Se non ti senti libero di abbandonare – se qualcosa, specie dentro te stesso, ti obbliga – allora meglio farsi qualche domanda aggiuntiva.
L’avvicinamento è lungo. Molto lungo. E mal segnato. Siamo stanchi dalla salita del giorno precedente: 1600 metri di dislivello per arrivare a quella Cima dei Camosci (2900) che ci permette di studiare al meglio il percorso del giorno successivo. Ecco, il giorno successivo è arrivato e un po’ la paghiamo. Una somma di stanchezza e di accoglienza alcolica di Roland, il gestore del rifugio. Sbagliamo sentiero, poi lo ritroviamo. Il cellulare qui non prende. Ma siamo qui proprio per questo: per staccare e stancarci. La placca, levigata dal ghiaccio, è conturbante, divertente da salire (l’appoggio del piede sulla superficie ruvida dà una sicurezza mai provata), infinita, e porta all’attacco del canalone.
La vetta ora sembra lì: mancano meno di 400 metri di dislivello, il canalone da vicino sembra più «appoggiato», la cresta meno insidiosa. Subentra l’idea che sia veramente possibile farcela. È il vantaggio del vedere le cose da vicino: sembrano meno irraggiungibili. Nuvole rapide ora avvolgono la vetta. Una scarica di sassi piomba dalla cresta sulla nostra sinistra a un centinaio di metri di distanza. Ingurgitato una pastiglia (soffro pure il mal di montagna) iniziamo la salita.
È necessario un inciso. Il cambiamento climatico. Quest’anno in pianura è un disastro. Ma per noi, che da 12 anni frequentiamo e viviamo in montagna, dopo il trasferimento in Alto Adige, il vero indicatore è il ghiaccio. Non c’è neve quest’anno. Il ghiaccio delle vedrette è scoperto: passate le 8 del mattino si trasforma in cascate, si fionda a valle, a tentare di riempire un invaso già mezzo vuoto che si è deciso giustamente di aprire per dissetare la pianura. Ora, quando attacchi il canalone, e sei a 3.000 metri, quelle pietre e pietruzze instabili, la morena insomma, sono tutte incastonate nel ghiaccio. Se il piede affonda e le pietre si muovono – ed è questo il caso – scatta l’allarme. È troppo caldo: e non è il problema di un giorno, è così da troppi mesi. Una situazione del genere ci era capitata solo nell’estate del 2019. Ma era inizio agosto, volevamo concatenare due cime sul gruppo dell’Ortles: sul ghiacciaio, scesi dalla prima, il piede sprofonda nel ghiaccio, una pietra si stacca e ci passa sopra, lasciandola intonsa. Scappammo.
Ora è metà giugno. E ogni passo è già una scommessa: con la mano si saggiano le pietre per capire se tengono, il piede deve essere rapido perché quello che muove la gamba davanti può investire la gamba rimasta dietro. È il tuo stesso muoverti a metterti in pericolo: ma se non ti muovi con grande velocità rischi di rimanerci sotto. E’ il dilemma dell’accelerazione che si risolve spesso in un stop and go utile anche a prendere fiato. Solo che poi quando ti fermi senti il rumore dell’acqua – sotto le rocce, sotto i tuoi piedi – non è quel rumore che di solito ti fa rasserenare. È il sintomo che bisogna esser veloci.
Attraversiamo il canalone per cercare di sfruttare le rocce che sembrano più stabili. E saliamo rapidi. In cresta fa freddo. Mancano solo 50 metri alla vetta. Ma qualcosa non va: quando sei in coppia, decidi in coppia. Se uno dei due non se la sente bisogna lasciare. A 3.400 e rotti metri basta e avanza. Il resto è fortuna, caso, bel tempo o brutto tempo. Si scende, con gli stessi pericoli della salita e la stanchezza in più. E duemila metri di dislivello in discesa. Il lunedì sarà un lunedì da zombie. Mi è già successo, so com’è: il lunedì lavori, ma oltre una certa soglia di quel che hai fatto la domenica, quel che fai è in un’altra dimensione. Non è che non esiste. È che hai visto il limite (ed è soggettivo) e il limite ti inghiotte.
Cosa ho imparato questa volta?